Non chiamatelo latte

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“La recente sentenza della Corte di Giustizia UE spiegata dall’avvocato Klaus”

 NOTIZIARIO TORREFATTORI, agosto 2017, autore Susanna de Mottoni • 

Il 14 giugno la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è espressa con una sentenza che porta ulteriore chiarezza nell’ambito delle denominazioni utilizzate per la promozione e la commercializzazione degli alimenti. Il caso specifico riguarda i prodotti lattiero-caseari e i sostituti di origine vegetale, come il “latte di soia”. L’avvocato Barbara Klaus, specializzata in diritto alimentare europeo, chiarisce le novità introdotte dalla sentenza.

In quale contesto normativo si inserisce la sentenza?
La sentenza riguarda la normativa relativa alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori (Regolamento (Ue) n. 1169/2011 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2011), e più precisamente, la corretta denominazione di un alimento.
A livello europeo, tale denominazione, vale a dire, il nome col quale è venduto un alimento, costituisce una delle informazioni che deve essere obbligatoriamente riportata nell’etichetta.
Questa informazione permette di identificare gli alimenti in maniera chiara e precisa. Conseguentemente, la sentenza del 14 giugno 2017 della Corte di giustizia dell’Unione europea, nell’affermare che denominazioni come “latte”, “crema di latte o panna”, “burro”, “formaggio”, “iogurt” siano riservate unicamente al latte di origine animale o a prodotti da esso derivati, si inserisce in un contesto normativo volto a garantire che i consumatori siano adeguatamente informati sugli alimenti che consumano e che le stesse informazioni siano fornite in modo tale da non trarre in inganno il consumatore sulle caratteristiche degli stessi (in particolare, sulla natura, identità, proprietà e sulla composizione).

Quali prodotti ne sono l’oggetto?
La sentenza della Corte di giustizia riguarda specificamente il caso della società “TofuTown”, che pubblicizza e distribuisce prodotti puramente vegetali con denominazioni come “Soyatoo burro di tofu”, “formaggio vegetale”, “Veggie-Cheese”, “Cream”.
Pertanto, la pronuncia ha stabilito, soltanto, il divieto di utilizzo delle denominazioni riservate al latte e ai prodotti derivati dal latte per alimenti vegetariani o vegani sostitutivi del latte o dei prodotti lattiero-caseari.

Quali novità introduce?
La sentenza del 14 giugno 2017 della Corte di giustizia ha stabilito che non è possibile utilizzare la denominazione “latte” e le denominazioni riservate ai prodotti lattiero-caseari (vale a dire, ad esempio, “crema di latte o panna”, “burro”, “formaggio”, “iogurt”, “latticello”, “kefir”, ecc.) per designare un prodotto puramente vegetale, e ciò anche nel caso in cui tali denominazioni siano completate da indicazioni esplicative o descrittive che indicano l’origine vegetale del prodotto in questione.
Per l’Italia, rimangono comunque eccezionalmente ammesse le denominazioni “latte di mandorla”, “burro di cacao”, “latte di cocco” e “fagiolini al burro”.

Prendendo, per esempio, il caso del cosiddetto “latte di soia”. Questo non potrebbe venir definito tale neanche nei listini/menu dei bar?
La sentenza si riferisce all’utilizzo della denominazione “latte” sull’etichetta per designare un prodotto puramente vegetale e riguarda, quindi, i prodotti preconfezionati. Il prodotto comunemente conosciuto come “latte di soia”, venduto in una confezione non può, pertanto, essere denominato “latte di soia” nell’etichetta e nella pubblicità.
Al ristorante/bar, il prodotto viene venduto sfuso, quindi, la sentenza non si riferisce direttamente a questa fattispecie. In ogni caso, la normativa che è stata interpretata dalla Corte di giustizia, ossia, l’art. 78 para. 2 del Regolamento (UE) n. 1308/2013 stabilisce che le definizioni, le designazioni o le denominazioni di vendita figuranti nell’allegato VII, ivi compresa la denominazione “latte”, possono essere utilizzate nell’UE solo per la commercializzazione di un prodotto conforme ai corrispondenti requisiti stabiliti nel medesimo Regolamento, che riserva, come detto, il nome “latte” ai prodotti di origine esclusivamente animale, a meno che tale prodotto non figuri nell’elenco delle eccezioni sopra già citate, circostanza che non ricorre nel caso della soia.
Di conseguenza, a mio avviso, anche nei listini/menu dei bar non è lecito designare la bevanda di soia con la denominazione “latte”. Quindi, in via precauzionale, sebbene il rischio di incorrere in sanzioni sia lieve, per non indurre in errore il consumatore, si consiglia anche a bar e ristoranti che vendono la bevanda a base di soia sfusa e non confezionata, di attenersi al dettato della pronuncia della Corte di giustizia.

Come valuta nel complesso l’iniziativa?
La sentenza della Corte di giustizia si pronuncia conformemente a quanto previsto dalla normativa di cui è stata richiesta l’interpretazione (vale a dire, l’articolo 78 e l’allegato VII del Regolamento (Ue) n. 1308/2013).
Quindi, i giudici hanno deciso correttamente.

Vi sono rilievi di particolare interesse?
Oltre a quanto sopra affermato, segnalerei altresì che la Corte di giustizia ribadisce quanto già riconosciuto e garantito dall’articolo 78, para 3 del Regolamento (Ue) n. 1308/2013 (la cui interpretazione è in esame). In particolare, infatti, è previsto che, per rispondere a comprovate necessità derivanti dall’evoluzione della domanda dei consumatori, dal progresso tecnico e da esigenze di innovazione della produzione, alla Commissione europea è conferito il potere di adottare modifiche alle definizioni di vendita stabilite. Conseguentemente, nonostante ad oggi la Commissione non abbia ancora adottato alcun atto simile per quanto riguarda le definizioni e le denominazioni di vendita del latte e dei prodotti lattiero caseari, non è escluso che in futuro vengano apportate delle modifiche in tal senso, alla luce della modalità con cui i consumatori percepiscono diciture come, ad esempio, “latte di soia”.
Inoltre, la Corte di giustizia ha specificato nella sentenza che le denominazioni legalmente previste per altre categorie merceologiche quali carni o pesci non sono soggette a restrizioni paragonabili a quelle alle quali sono soggetti i produttori di alimenti vegetariani o vegani sostitutivi del latte o dei prodotti lattiero caseari.
Di conseguenza, attualmente, denominazioni quali “wurstel vegetariano”, “cotoletta vegetariana” possono essere impiegate, previa verifica dei singoli prodotti caso per caso.

La sentenza riguarda i prodotti lattieri e il veganesimo. Se la si osserva invece dalla prospettiva dei prodotti surrogati, potrebbe aprire la strada anche ad altre iniziative analoghe, ovvero a una stretta su alcune denominazioni commerciali? Pensando al settore caffè, a prodotti quali caffè di vinacce, di ghiande, di farro…?
Ritengo improbabile che, nel breve periodo, per il settore del caffè, si verifichi un’iniziativa analoga a quella palesatasi per il latte ed i prodotti lattiero caseari. Infatti, la ragione principale sottesa alla pronuncia della Corte di giustizia è da vedersi nel fatto che prodotti non di origine animale (ad esempio, la bevanda di soia, che è un liquido ottenuto da un legume essiccato, reidratato, macinato e ricostituito di acqua) venivano impropriamente commercializzati, ad esempio, con la denominazione “latte”. Essendo quest’ultimo un prodotto che, dal punto di vista giuridico, è definito come proveniente da fonti animali, la Corte di giustizia ha esplicitamente escluso che prodotti vegetali (che, per definizione, non contengono alcun componente del latte) venissero riferiti ai prodotti lattieri.
Diversamente, a livello nazionale, il caffè è disciplinato dal Decreto del Presidente della Repubblica 16 febbraio 1973, n. 470, il quale reca le definizioni e le condizioni per il commercio di specie di caffè.
Sebbene occorra verificare caso per caso la conformità delle caratteristiche del prodotto da commercializzarsi a dette definizioni e regole, ritengo comunque che le disposizioni applicabili al settore del caffè offrano una base giuridica sufficiente per impedire che i consumatori possano essere tratti in errore da indicazioni ingannevoli.

 

 

L’avvocato BARBARA KLAUS svolge l’attività legale in Italia e in Germania, essendo iscritta come Rechtsanwalt all’Albo degli Avvocati di Norimberga e come Avvocato presso l’Albo degli Avvocati di Milano.
È specializzata nel diritto europeo ed internazionale; ha maturato una qualificata esperienza nel diritto alimentare europeo (compreso il diritto concernente i prodotti di consumo in generale ed i mangimi) e degli Stati membri.
È inoltre attiva anche nel campo del diritto dei prodotti cosmetici, dei dispositivi medici, dei farmaci e dei beni di consumo. Presta consulenza legale e strategica nei suddetti settori ad aziende nazionali ed internazionali ed alle associazioni di categoria; rappresenta i clienti dinanzi alle autorità amministrative e giudiziali.
È, inoltre, specializzata nel diritto antitrust e della concorrenza nonché in materia di commercio estero dell’Unione europea e di diritto commerciale internazionale (diritto dell’OMC).