“La torrefazione mantovana raccontata da Angelo Massari. Tra equilibri aziendali, rapporto con i baristi e la questione qualità-prezzo”
• NOTIZIARIO TORREFATTORI, ottobre 2021, autore Alberto Medda Costella •
“Mio padre faceva l’agricoltore a Castiglione delle Stiviere. All’età di 43 anni, dopo essersi occupato di campi e di bestiame da latte, decise di cambiare lavoro. Con 4 figli da mantenere c’era necessità di aumentare il reddito. Su consiglio di un legale, incontrò a Mantova un torrefattore che cercava un socio per la sua attività”.
Inizia così la storia della Caffè Brasil. A parlare è Angelo Massari, 70 anni, figlio di Iginio, il fondatore. In realtà il battesimo col mondo del caffè per suo padre non coincide con l’anno di nascita della torrefazione, il 1955. L’incontro, quasi casuale con l’avvocato che lo mise in contatto col torrefattore, risale a due anni prima. Trovato l’accordo sono andati avanti insieme dal ’53 al ’55, dopodiché Iginio Massari ha preso la sua strada.
“All’epoca era un neofita del mestiere e il caffè non era l’unico prodotto coloniale trattato. Si vendeva il malto, la cicoria, etc.”, riprende Angelo, spiegando le difficoltà oggettive in cui si trovava il territorio mantovano subito dopo la seconda guerra mondiale.
“Mio padre tostava tutti i giorni e andava a consegnare il caffè ogni settimana, servendo prevalentemente i negozi. Lavorava da solo, aiutato da mia madre, Laura Lui, che era anche la titolare e che si occupava della contabilità. Erano anni in cui non c’erano pause. Si lavorava giorno e notte”.
Una volta la prima cosa che si chiedeva quando si cercava lavoro era a quanto ammontava la paga, ora si domanda quali sono i giorni liberi a disposizione. Altri tempi e altre esigenze si direbbe. Un’eventualità che non è prevista neanche per chi nel 2021 ha la responsabilità dell’azienda sulla sua persona. Angelo è entrato a lavorare in torrefazione all’età di 14 anni insieme al fratello Gianni, oggi settantacinquenne, anche se l’ingresso in società risale al 1975. Dopo è stata la volta delle mogli Ines e Olivia e, da qualche anno, anche del figlio Marco e della nipote Monica. Un’azienda a completa gestione famigliare, una situazione che di fatto ha permesso maggiore stabilità davanti alle difficoltà del lockdown e alle conseguenti restrizioni.
“Diciamo che in generale è stata una catastrofe”, spiega Angelo. “Non avere alcun dipendente ed avere il capannone di proprietà ci ha però agevolato, anche se per un anno siamo stati costretti a non percepire lo stipendio. Se non fai un lavoro che ami non puoi permetterti questi sacrifici”.
I clienti della Caffè Brasil sono prevalentemente nel settore Ho.Re.Ca. quasi tutti in provincia di Mantova, con qualche puntata nel basso Lago di Garda. Come tutte le altre torrefazioni del nostro Gruppo, la Caffè Brasil ha sempre rivolto la sua attenzione alla qualità, unico modo per distinguersi dalle grosse aziende e multinazionali.
“Nel nostro campo, con la concorrenza che abbiamo, se non hai un prodotto che vale sei finito. Lavorando in una piccola provincia non abbiamo i grandi quantitativi di una grande città e di conseguenza quasi tutti i clienti sono equipaggiati con le nostre attrezzature, non solo per un discorso economico, ma anche di comodità. Ultimamente stiamo però assistendo alla tendenza di qualche barista che preferisce acquistarsi i macchinari, per avere una maggiore possibilità di scegliersi il caffè e strappare un prezzo più favorevole”.
Una volontà che conferma il maggiore impegno degli esercenti verso la qualità. Se il caffè viene servito rispettando poche e semplici regole si può realmente fare la differenza.
“Noi diciamo sempre al barista che non deve preoccuparsi se paga la miscela un euro in più, ma solo se il cliente non ritorna perché non ha bevuto un buon caffè. Quando quest’ultimo è contento deve essere una soddisfazione, perché è un segnale che ti permette nel tempo di lavorare di più”.
Dietro questo risultato ci sono tanti accorgimenti, lavoro e cura nelle varie fasi. La Caffè Brasil per questo invita in torrefazione i suoi clienti per spiegare quanto sacrificio e impegno occorre per la riuscita di un buon prodotto.
“Una volta l’Italia era un punto di riferimento per il caffè. Oggi costa poco più di un euro. È chiaro che se all’estero lo paghi più del doppio un motivo ci sarà. Dobbiamo far crescere la cultura di un espresso italiano di qualità, ma abbiamo visto anche quali sono stati i risultati presentati in quella famosa puntata di Report nel canale RAI. Capiamo quindi perché nel tempo gli organismi internazionali ci abbiano declassato. Purtroppo è anche un fatto culturale di impresa che ci spinge a viaggiare al massimo, ma che talvolta sceglie anche consapevolmente di investire nella qualità il meno possibile”.