“Il caffè italiano secondo Franco Bazzara, tra opportunità da cogliere e cattive abitudini da perdere”
• NOTIZIARIO TORREFATTORI, agosto 2018, autore Susanna de Mottoni •
Nel suo caso l’aggettivo non è forzato. Appassionato lo è davvero Franco Bazzara, anima della Bazzara Espresso assieme al fratello Mauro. Non una tiepida passione, ma un fervore che è impossibile non cogliere quando parla di caffè. Un fiume in piena in cui si coglie curiosità, amore, dedizione per il mondo in cui lavora da decenni.
Gli abbiamo chiesto di raccontarci questo mondo. E ne è emerso un quadro in cui comunicazione e formazione giocano da protagonisti e in cui il mercato italiano appare di fronte a un bivio. Un bivio su cui sta scritto Starbucks.
Quanta voglia c’è in giro per il mondo di imparare a conoscere il caffè?
Tanta. Pensandoci mi viene in mente la Cina che ha iniziato a produrre caffè nello Yunan. O Starbucks che conta 3000 locali e ne vuole il doppio entro il 2020. O l’incredibile amore e conoscenza della Corea del Sud per il caffè, sbocciato in tempi relativamente recenti. O del Giappone, già da un paio di decenni, capace di comprare praticamente tutto il Blue Mountain sul mercato. E poi i consumi in continuo aumento, anche in Russia o nell’UK, con tea room che chiudono e coffee shop che aprono.
Pensi sia -davvero!- verosimile che un giorno saremo in grado di ordinare un caffè al bar con la consapevolezza con cui oggi ordiniamo un calice di vino?
Vent’anni fa, assieme a Vinko Sandalj, sono stato uno dei primi a parlare di monorigine. Mi ridevano in faccia. Ora è un trend che dall’Europa del Nord sta scendendo e si sta diffondendo sempre più nei paesi mediterranei e non solo. Quindi, sì, credo che sia un passaggio inevitabile, come quello dalla ruota all’automobile. È indiscutibile che un giorno avremo la carta dei caffè, come oggi abbiamo quella dei vini. Una decina di bar in Italia già lo fa e si inizia a discuterne. Del resto, su cosa si differenzia un bar? Sul prodotto caffè, sulla sua qualità, su come si è in grado di spiegarlo. Fenomeni come quello innescato da Francesco Sanapo sono destinati a crescere. E sarebbe bello se un giorno imparassimo a dire “degustiamo un caffè” invece di “beviamo un caffè”, perché il caffè non è una bibita qualsiasi che disseta o rinfresca. Un buon espresso, se non altro per me, è meditazione, una fonte di ispirazione.
Siete un’azienda anomala: avete dato uno spazio rilevante alla comunicazione. Come è nata questa scelta?
Per passione. Ci siamo chiesti: come è possibile che tutto ciò che accade nel mondo del caffè non abbia la diffusione che merita? Così, nel 2000 abbiamo pubblicato il nostro primo libro “Viaggio nel mondo del caffè”, sold out, punto di partenza di una “saga” di 4 libri. Il nostro obiettivo è far rete, comunicare per unire. Del resto, con Coffee Experts, siamo stati i primi a riuscire a riunire tutte le associazioni italiane di settore, creando un momento di incontro e di confronto. E poi comunicare è un bellissimo modo per imparare. Perché per comunicare bisogna ascoltare, e quindi imparare. Insomma, io e Mauro non avevamo alternativa. E siamo appena all’inizio della comunicazione nel mondo del caffè!
Trend del settore: ce n’è qualcuno in atto che reputi particolarmente interessante e carico di opportunità?
L’enorme interesse per la formazione. Un paio di anni fa non avremmo potuto immaginare un tale interesse. La nostra Accademia richiama partecipanti da Tel Aviv, Budapest, Parigi, dall’Iran, insomma da tutto il mondo vengono nella nostra città a imparare a conoscere il caffè. È un trend interessante perché rappresenta perfettamente come oggi non si venda più il prodotto, bensì quello che c’è dietro al prodotto.
È un trend che spinge con decisione l’Italian lifestyle. Non è un treno, è un jet che sta passando davanti al nostro comparto: non a caso molte torrefazioni si stanno attrezzando per prenderlo. Bisogna dar merito al grande lavoro di personaggi come Andrej Godina, Andrea Lattuada, Andrea Antonelli, Alberto Polojac. O a eventi come TriestEspresso Expo che negli anni ha sempre dato grande spazio alla formazione e ai workshop.
Nel mondo i monorigine vivono una fase di maggior popolarità – son considerati più “cool”- delle miscele. Hai l’impressione che sia davvero così? Le miscele stanno “perdendo terreno”?
Monorigine e miscele sono due universi paralleli, che non si scontrano, ma si aiutano a vicenda. Più caffè speciali si vedono nei bar, più caffè si vende e quindi anche più miscele. La presenza dei monorigine sul mercato deve essere uno stimolo a migliorare. Basta latte o zucchero per nascondere difetti. Arriverà il giorno in cui il consumatore vorrà davvero investire al meglio il proprio euro. Anche in una miscela di elevata qualità.
Del resto, una decina di anni fa, in Italia, c’erano 2000 torrefazioni. Un quarto ha dovuto chiudere. Per la crisi, certo, ma forse ha pagato anche il pegno di non essersi messi al passo con le necessità della clientela. Se il bio traina così tanto nel mondo del food, perché mai non dovrebbe valere anche per il caffè? Anche questa trasformazione avverrà, perché il nostro è un settore che muove troppi capitali.
Per concludere, dacci un’immagine per descrivere il mondo del caffè italiano. Con una nota positiva ed una negativa.
L’istantanea che mi viene in mente è quella di un uomo con sotto Starbucks, o Starbucks che apre nella piazza del motore d’Italia. Siamo a uno spartiacque: è vero, noi italiani siamo i migliori a fare un sacco di cose, ma tutti sappiamo che gli esami non finiscono mai e bisogna sempre continuare a studiare. C’è chi vede Starbucks come una iattura, io, al contrario, come una grande fortuna.
Nota negativa: il nostro individualismo. Le grandi aziende nel mondo del caffè dovrebbero capire che è completamente finita l’era del io vado da solo. Mentre come nota positiva richiamo il titolo di un film, “La grande bellezza”. Per quanto terreno possiamo perdere, nessuno mai riuscirà a copiare ciò che noi italiani abbiamo insito nei nostri geni: la grandissima capacità di creare bellezza attorno a noi.
Ma non dobbiamo dimenticare la parola magica: lavoro duro.
Il resto ce lo danno i geni.
Franco Bazzara